La finestra sul mare

20.05.2020
Ragazza alla finestra (Salvator Dalì)
Ragazza alla finestra (Salvator Dalì)

La finestra sul mare

Si frequentavano ormai da un anno. L'amicizia si era già trasformata in una relazione amorosa, ma lui non le aveva ancora confessato il desiderio di volerla sposare per trascorrere insieme l'avventura della vita. L'ultima volta avevano trascorso il Natale a casa di Irene. Carlo si era presentato con un ramo di vischio con le bacche rosse e l'anello di fidanzamento. Irene, in cuor suo, aveva da sempre sperato che la loro storia potesse diventare qualcosa di più, potesse diventare una storia con un futuro condiviso e duraturo. Accolse con grande felicità la dichiarazione di Carlo e l'abbraccio fu lungo, fuori dallo spazio e dal tempo, perduti. Quando rientrarono dal sogno, senza parlare, tenendosi per mano, accesero il giradischi e ballarono a lungo sulle note di My Dream, Love me tender, Scandalo al Sole, Enchated Sea... Mare incantato, quel mare a cui Irene affidava tutto, i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue speranze, i suoi sogni. Quel mare dal quale si lasciava rapire, quand'era sola, rimanendo per ore alla finestra della sua stanza. Cenarono al lume di candela. Parlarono degli anni passati, del loro primo incontro. Risero dei loro ricordi d'infanzia.

A un tratto Carlo si fece serio, le prese una mano e con voce rotta le disse che, di lì a poco, sarebbe partito volontario in missione speciale per l'Iraq. Irene amava il mare. Lo amava per la sua bellezza, lo amava per il suo mistero, lo amava per il suo linguaggio caldo, melodioso, profumato di sale. Lo amava per i suoi tramonti infuocati, per le tempeste invernali, per il suo racconto immortale. Lo amava al punto che finì per condizionare il proprio destino, per piegarlo, inconsapevolmente, fino a farle incontrare un uomo di mare, un ufficiale di marina, facendole incontrare Carlo. Ora quel suo amato mare glielo avrebbe rapito. Ora, quel marinaio di cui si era innammorata perdutamente, partiva per attraversare l'incanto del suo mare, approdare oltre l'orizzonte, sbarcare nell'inferno degli uomini. Irene si avvicinò alla finestra. Due lacrime calde rigarono il suo volto rischiarato dalla luce della luna. Ammirò ancora una volta i riflessi argentei sul crespo dell'acqua del mare. Carlo la raggiunse e abbracciandola le promise che sarebbe tornato... sarebbe tornato presto, per sposarla! Fu una notte dolce, la più dolce di tutte le notti vissute insieme.

Uno dopo l'altro, i giorni, le settimane, i mesi correvano in un lento alternarsi, scanditi dalle lettere di Carlo che arrivavano con cadenza regolare. Non le diceva della guerra, preferiva scriverle dell'amicizia dei compagni, degli scherzi che quotidianamente si facevano l'un l'altro, di aneddoti curiosi o divertenti. Gli piaceva parlarle di sé, di loro due e dei progetti che avrebbero realizzato insieme una volta tornato. E le rinnovava il suo atto d'amore con pensieri e frasi degni di un poeta dell'Ottocento. Quella finestra era diventata il suo rifugio, il suo ritiro. Apriva le lettere soltanto lì, e le leggeva, appoggiata al davanzale, con il respiro del mare in sottofondo, alzando lo sguardo ad ogni pausa della lettura, come per scrutare il lontano orizzonte, con l'inconscia speranza, forse, di scorgere l'arrivo di una nave.

Le lettere di Carlo cessarono di arrivare. Il trascorrere del tempo si fece ogni giorno più angoscioso. Tornata a casa dopo il lavoro, mangiava in fretta qualcosa di già pronto o non mangiava affatto, perché se ne dimenticava. Andava alla finestra e rimaneva lì per ore appoggiata al davanzale, guardando lontano, talvolta piangendo in silenzio, altre volte interrogando il mare, parlandogli come a un amico, implorandolo di darle notizie, di farle sapere. Altre volte rileggeva le sue lettere, ripeteva sottovoce le frasi d'amore del suo poeta lontano ripercorrendo mentalmente le ore trascorse con Carlo in quell'ultima notte di Natale. Quell'ultima dolce notte d'amore!

Trascorsero altri mesi nel vuoto di un'attesa senza risposta, nel silenzio di un tempo che non aveva più significato mentre la disperazione si stava impadronendo di Irene. La sua finestra non era più il suo rifugio, la sua finestra era diventata un incubo. Il suo mare non era più l'amico al quale chiedere aiuto, cui confidare le proprie angosce, cui porre domande e ottenere risposte. Quel mare era ora un abisso oscuro. E le notti lunari illuminavano soltanto una scena sinistra.

Un giorno, tornando dal lavoro, da lontano, lo vide alla fermata dell'autobus. Il cuore le salì in gola. Era tornato! Ma quando? Ma non era in divisa. Forse era in licenza e stava venendo da lei. Corse verso di lui, lo raggiunse, lo chiamò per nome: "Carlo!" Urlò, sforzandosi di ritrovare il fiato che le mancava per l'emozione. Lui la guardò con sguardo interrogativo. "Carlo, non mi riconosci?" invocò Irene con grande apprensione. Si accorse della sua magrezza, pallido in viso, con le guance scavate. I suoi occhi azzurri come il mare si erano ingrigiti come i lunghi giorni d'attesa, i suoi capelli d'ebano erano diventati bianchi come la neve di quel Natale ormai lontano. Alzò una mano come per carezzargli il viso. L'uomo, con un sorriso triste, ma dolce come lo era stato un tempo, disse: "mi spiace, non la conosco". Salì sull'autobus che lo portò via per sempre.

Qualche mese dopo Irene diede alla luce un bambino. Volle dargli il nome del suo perduto amore, il nome del suo grande poeta che non poté tornare per farla sposa. Lo chiamò Carlo. Gli diede il suo latte al chiaro di luna, dietro la finestra affacciata sul mare, cantandogli i versi d'amore che quel poeta smemorato un giorno scrisse alla sua mamma.

(Antonio Fiorito - Padova, 19 novembre 2019)


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