La festa spezzata

di Patrizia Invernizzi Di giorgio

Natale per me è da parecchi anni una festa davvero impegnativa, regali, pacchetti, biglietti e poi.... il pranzo. Quest'ultimo, in particolare, richiede molta cura, deve essere " speciale", per questo cerco di aggiungere alle pietanze tradizionali un piatto nuovo. Anche quest'anno tutto è riuscito a puntino e il tortino di spinaci ha ricevuto molti apprezzamenti. E' stata una festa vera, non convenzionale, senza forzature, la gioia schietta di ritrovarci insieme in un ambiente accogliente, davanti ad una mensa piena di prelibatezze, a sentire il calore degli affetti che ci legano. Da pochi anni, dopo varie traversie è tornata ad essere un momento magico, che assaporo fino in fondo. E' tardi, se ne sono andati tutti; dopo aver messo in lavastoviglie l'ultimo piatto, mi cala addosso una benefica stanchezza. Ci vuole una passeggiata, è il mio abituale antidoto alla fatica. La sera è umida, tutto gocciola: le piante, i muretti ammuffiti, anche i lampioni sembrano aver pianto. Da anni, quasi ogni sera, faccio lo stesso giro intorno all'isolato. Non amo cambiare itinerario, mi dà sicurezza percorrere le stradine strette, mal disegnate, è un bisogno quasi animale di marcare il territorio, come se dovessi convincermi che qui ho messo radici. Conosco questa parte del quartiere nei dettagli: le villette con giardino, costruite nel dopoguerra, il vecchio convento Santa Rosa, ora sede della scuola cinese, alcuni capannoni in disuso, e verso la fine del tragitto una fila di casette basse, tutte uguali, edilizia popolare degli anni cinquanta. Recentemente sono state quasi tutte ristrutturate e, per il bisogno che l'uomo ha di distinguersi, ciascuna ha il suo tratto particolare.

C'è chi ha messo un portoncino verde, chi ha scelto per gli scuri un rosso acceso, chi infine ha trasformato il balcone in una veranda, abbellita da tendine di pizzo. Solo due o tre mostrano ancora i muri screpolati e le chiazze ampie dell'umidità. E' tardi e le imposte sono chiuse. La gente sta assaporando la gioia della festa, o ripensando a ciò che non ha funzionato o gli è mancato.

Attira la mia attenzione una casetta scalcinata, dove la luce è accesa e gli scuri spalancati. Mi capita a volte, durante la passeggiata , di indugiarmi a guardare ciò che appare dietro le finestre: le sagome delle donne che si muovono svelte tra i fornelli e la tavola, un uomo che cammina nervoso, l'ombra di una testa china sui libri o sui quaderni. Non sono una ficcanaso, è che mi si mette in moto l'immaginazione e mi trovo a pensare come potrebbe essere la vita di quegli sconosciuti, quali storie si svolgono dentro e fuori da quelle pareti . Io sono dentro la mia storia per ventiquattro ore e immaginando altre vite è come se, affacciandomi ad un balcone, mi si aprissero nuovi orizzonti.

Mi avvicino alla finestra illuminata, è molto bassa e solo un fazzoletto di terra la separa da me. Mi appoggio alla rete metallica per guardare meglio, oltre i vetri, sporchi e senza tende. A destra c'è una vecchia cucina in formica, gli sportelli dei pensili sono aperti, il ripiano è disseminato di barattoli e il secchiaio ingombro di tazze e posate. Al centro sul tavolino vecchio, senza tovaglia, c'è un piatto con residui di cibo. Appoggiato all'altra parete c'è quello che dovrebbe essere stato un tavolo da geometra o da architetto, talmente ingombro di carte, scartoffie, libri e indumenti, che a malapena riesco a distinguere il tecnigrafo. Osservo sgomenta quell'incredibile disordine, quando vedo un'ombra avanzare dal fondo della stanza. E' un uomo magro, curvo, capelli bianchi e radi gli piovono sulla fronte, nascondendo gli occhi e in parte i lineamenti del volto emaciato. Si muove lentamente, sembra cercare qualcosa, ma in realtà tocca casualmente un oggetto, lo ripone e passa subito ad un altro. Potrebbe essere cieco, ma forse è solo in balia di un muto smarrimento interiore, i cui segni sono visibili ovunque.

Ecco, ora si è fermato, si appoggia con una mano ad una vecchia poltrona e con l'altra solleva il maglione liso, mostrando il torace magro, fasciato da un bendaggio. Soltanto ora mi accorgo che indossa un paio di guanti bianchi, presumo di lattice. Si passa più volte la mano sulle bende, mentre il volto si contrae in una smorfia di dolore, poi la lascia ricadere e riprende a girovagare, ancora più curvo.

Sento un sapore sgradevole in bocca, come se una muffa acida mi salisse dallo stomaco. Sento di essere di fronte ad una storia, di cui mi sfuggono i contorni precisi, ma che nasconde una tragica solitudine. Quell'uomo è malato, confuso e io non riesco a distogliere gli occhi da quella scena. Resto lì, incollata all'asfalto e attendo, ma cosa? Niente di ciò che vedo può mutare e allora che cosa sto aspettando? Le mani cominciano a tremarmi leggermente. Lo so che cosa attendo: di avere il coraggio che non ho, di fare quello che il cuore mi suggerisce: suonare, entrare, offrirgli il mio aiuto. Potrei prendergli le mani e dirgli che sono lì perché non sopporto di vedere un uomo solo e sofferente. Magari potrei rassettare la stanza, dove chissà da quanto tempo, se mai c'è stata, manca una presenza femminile. Potrei preparargli da mangiare, prendermi cura di lui. Invece non muovo un passo, mi paralizza forse la paura di essere rifiutata o forse di infilarmi in una brutta storia oppure sono semplicemente vile. Non è certo coraggio quello che mi spinge a riprendere la strada di casa, non sono quello che a volte presumo di essere. Domani informerò i servizi sociali, vedrò di fare qualcosa, ma io, io non ho saputo restare.

Mi viene ora il dubbio di pretendere troppo da me, comunque ho freddo e la strada mi sembra più buia del solito. Affretto il passo, arrivo a casa e in salotto guardo le luci

sfavillanti dell'albero e le palline multicolori , poi ripenso al dolore di quella solitudine, di quell'abbandono, senza il quale la festa sarebbe stata più luminosa


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