Patrizia Invernizzi Di Giorgio: Quarto Oggiaro

02.05.2021
Longobucco (Cs), Panorama
Longobucco (Cs), Panorama

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Quarto Oggiaro

Stamattina qualcuno ha suonato il campanello alle nove. Ha detto di essere una giornalista dell'Espresso e di voler farmi un'intervista. Non so perché mi sono fidata e le ho aperto, di solito non lo faccio, perché nel quartiere c'è la malavita.

È arrivata trafelata, perché abito al settimo piano senza ascensore. Una ragazza giovane, magra come un'acciuga, di età indefinibile, come la maggior parte delle ragazze di oggi che ci tengono molto all'aspetto. Sta intervistando parecchi anziani del quartiere, a campione, come si dice oggi, per capire il loro disagio in questo periodo di Covid, alla fine scriverà un articolo.

Ho risposto meglio che ho potuto alle sue domande. Sono arrivata a Milano nel 1980 da un paesino della Calabria, Longobucco, nella Sila greca. Mio marito cercava lavoro, là c'era miseria e disoccupazione. Tramite un paesano abbiamo trovato un piccolo appartamento in affitto a Quarto Oggiaro, un quartiere di periferia dove si continuava a costruire, pieno di gru e noto per lo spaccio di eroina. Presto è nato un figlio, abbiamo fatto tanti sacrifici per farlo studiare ed ora lavora come geometra a Latina. Cinque anni fa mio marito è morto e sono rimasta sola.

Quando se n'è andata, ho fatto come tutti i giorni, da quando è arrivata la primavera e la temperatura è salita, ho preso la mia sedia e mi sono seduta sul balcone.

Vivo reclusa in questi pochi metri quadrati e solo a pensarci qualche volta mi sembra di impazzire. Non è soltanto a causa della pandemia, ma anche perché ho le gambe gonfie, che mi fanno sempre più male. Prima ce la facevo a salire i sette piani di scale, anche se mi fermavo ogni tanto per riprendere il fiato, ora non riesco più. Uscivo quasi ogni giorno, per fare la spesa o semplicemente per fare un giretto, incontrare qualcuno che conosco, guardare le vetrine.

Non immaginavo quanto fosse terribile la solitudine, il balcone e la sedia sono la mia ancora di salvezza, specie ora che ci posso stare di più.

È una vecchia sedia impagliata della cucina, ancora buona e non troppo pesante. L'ho sempre trovata comoda. Con i dolori di schiena ci sto meglio che in poltrona, per questo quando guardo la televisione, me la porto in salotto.

Dal balcone vedo correre le macchine e il viavai della gente sui marciapiedi, non riesco a distinguere i volti, poco anche i colori; sembrano formiche e quando sabato c'è il mercato, sembra un formicaio.

Comunque per il resto della giornata il tempo non passa mai.

Aspetto con ansia mio figlio, che viene ogni quindici giorni; rimane poco, giusto il tempo per fare due parole e accertarsi che sto bene. Il nipote non lo porta più, dice che non sarebbe prudente; a me dispiace molto, perché mi metteva allegria, anche se era sempre lì col telefonino in mano. Mi fa la spesa e me la faccio bastare, del resto ho sempre vissuto con poco. Ogni tanto viene anche la signora Anna, la vicina del piano di sotto. È fissata con il coronavirus, parla solo di quello, ma almeno mi fa un po' di compagnia. Oggi però ho la testa altrove, l'intervista mi ha fatto ricordare tante cose: il battesimo di Saro, i sacchettini che avevo fatto all'uncinetto, con i confetti azzurri e, siccome in tinello non avevamo ancora il tavolo, abbiamo pranzato con il padrino in cucina, perché non potevamo permetterci di andare in trattoria.

Ricordo il primo compleanno di Saro, lui in piedi sulla sedia, che soffia sulla candelina e batte le manine. Poi Andrea, mio nipote, sempre sulla stessa sedia; io che gli racconto una favola e lui che ascolta e mangia la merendina al cioccolato, la sua preferita.

Poi l'ultimo anno con mio marito, quando stava sempre peggio, ma teneva duro, rimaneva tutto il giorno in poltrona e non voleva arrendersi al letto. Mi sedevo sulla sedia accanto a lui, ore ed ore; tenevo la sua mano fra le mie, per scaldarla e mentre la accarezzavo, mormoravo sottovoce in dialetto una ninna nanna, che si cantava in paese ai bambini per farli addormentare. Era diventato anche lui un bambino, fragile e indifeso.

Quanto gli volevo bene, quanto gliene ho voluto, per seguirlo fin qui ed affrontare questa città sconosciuta e poi, quando la sua paga di muratore non è più bastata, fare la sguattera in un ristorante e sentirmi chiamare "terrona".

È ora di rientrare e mangiare la solita pasta e un po' di verdura. Poi ancora fuori a pisolare al sole come i gatti e guardare la distesa dei tetti, le antenne, le parabole e sotto infine la gente con le mascherine ma libera di camminare, per convincermi che poi, tutto sommato, non sono sola a questo mondo.