Patrizia Invernizzi Di Giorgio:Lo scrittore che non sapeva più scrivere

08.03.2022

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Lo scrittore che non sapeva più scrivere

Enrico era un tipo introverso, non amava la compagnia, per questo da piccolo era stato preso di mira, oggetto di derisione e di brutti scherzi.

A quarant'anni non era migliorato, gli altri non lo interessavano. Freddo e distaccato, anche nell'ambiente di lavoro non dava confidenza a nessuno e si teneva alla larga dalle donne. I rapporti sociali si limitavano a due amici, con i quali trascorreva il sabato sera, bevendo e giocando a bridge. Gli piaceva scrivere brevi racconti, poco attinenti alla realtà.

Poi un giorno, inspiegabilmente il suo atteggiamento mutò e cominciò ad interessarsi alla gente. Sul tram, che prendeva per andare al lavoro, osservava con attenzione i volti delle persone, i loro atteggiamenti, perfino il loro abbigliamento e provava ad immaginare che tipo di vita conducessero.

Non si limitava a questo, se c'era un anziano in equilibrio precario sul bastone o una vecchietta che barcollava ad ogni scossone, cedeva loro il posto. Quando lo ringraziavano si sentiva appagato.

Anche lui come tutti gli uomini aveva i suoi riti. Il sabato ad esempio per prima cosa andava all'edicola e mentre prima era un "prendi e fuggi" ora trovava piacevole, distensivo fare quattro chiacchiere col giornalaio. Inoltre era abituato a concedersi il lusso di un aperitivo al solito bar cinese. La giovane dietro il bancone era carina, ma non se n'era mai accorto. La fronte corrugata tradiva tuttavia una certa stanchezza e qualche preoccupazione, eppure si sforzava di essere gentile e sorridente con i clienti.

Intrattenendosi con lei ogni volta, anche se brevemente, era venuto a sapere che era mamma di un bimbo di due anni, che affidava tutto il giorno ai nonni; avrebbe voluto stargli vicina e si sentiva ansiosa. Tra loro si era aperta una breccia e le sue confidenze lo facevano sentire importante. Nel condominio dove abitava non aveva mai rivolto la parola a nessuno, neppure alla signora del suo pianerottolo, pur sapendo che aveva seri problemi di salute. Aveva cominciato a chiederle come stava, lei in un primo momento era rimasta di stucco, in seguito l'aveva invitato a pendere il caffè e nella quiete del salotto gli raccontava la sua infanzia durante la guerra tra bombe e rifugi, risvegliando in lui un grande interesse. La sera si metteva a scrivere con foga e tutto quello che aveva vissuto si trasformava in storie coinvolgenti, proprio perché potevano appartenere a tutti.

Ci sono tuttavia nella vita certi avvenimenti imperscrutabili, che è inutile voler spiegare. Così, senza motivo, come si era aperta, la finestra sul mondo bruscamente si chiuse. Enrico tornò a vivere come se al mondo ci fosse solo lui. Ovunque si trovava una fitta cortina di nebbia gli impediva di vedere gli altri, come se una sopraggiunta cecità glielo impedisse. Si muoveva e lavorava come un automa e non vedeva l'ora che arrivasse la sera, per rintanarsi nel suo studio. Lì si lasciava sopraffare dal malessere, i pensieri si aggrovigliavano ed era impossibile districarli, era al tempo stesso impaurito ed attratto da quel vuoto che sentiva crescere dentro ogni giorno di più. Impossibile capire quello che gli stava succedendo, impossibile ed inutile. Stava lì ore, con la testa fra le mani a fissare un punto qualsiasi sullo schermo del computer, finché la misericordia del sonno gli chiudeva gli occhi. Aveva sognato più di una volta di essere circondato da persone, ma non riusciva a toccarle e nemmeno a trattenerle, perché una ad una tutte gli giravano le spalle e si allontanavano in fretta. Aveva aperto più volte la cartella - scrittura- creando un nuovo file, sperava che il vuoto che si era impossessato di lui vomitasse parole e che le parole diventassero storie, ma non era successo niente.

Una sera l'aveva preso una rabbia furiosa e aveva cancellato tutto, poi era saltato sul mouse ripetutamente e l'aveva distrutto. Sapeva che quel buco, che gli forava l'anima, lo avrebbe inghiottito, ma non sapeva per quanto tempo sarebbe durata quella tortura. Del mondo reale e di quell'altro io i ricordi si facevano sempre più vaghi.

Nella sua vita ora non c'erano appigli né certezze, soltanto una, dolorosa, la consapevolezza che non avrebbe mai più aperto una cartella di scrittura, perché su quel vuoto, che risaliva dalla profondità delle viscere e avrebbe finito col distruggere la sua dimensione umana non c'era proprio niente da scrivere.