Patrizia Invernizzi Di Giorgio: Dopo la tempesta

26.01.2022

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Dopo la tempesta

Tutti nella vita abbiamo assistito almeno ad una tempesta. Il cielo diventa plumbeo, si alza un vento che crea turbini di foglie, piega i rami e sembra voler portare via con sé tutto quello che trova. Quando la tempesta diventa ciclone, allora gli alberi temono di essere sradicati e i tetti scoperchiati.

Poi la pioggia, i primi goccioloni che si fanno sempre più frequenti fino a diventare una fitta cortina che ci impedisce di vedere e veri e propri rovesci o bombe d'acqua, come le chiamano oggi.

La tempesta mostra il lato violento della natura, insolito, inaspettato, improvviso e questo ci mette ansia, paura, perfino terrore; ci chiediamo angosciati: "Cosa ci potrà accadere?".

Ben più grave è la tempesta dell'anima. Un evento traumatico, come una grave malattia, un lutto, un tracollo economico o più semplicemente, il ritrovarci senza lavoro, ci colpiscono con violenza, gettandoci a terra.

La sofferenza genera disorientamento, impotenza, nei casi estremi disperazione, pensiamo di non farcela, che non ce la faremo mai e ci assale la domanda inquietante, che non trova risposta: " Perché proprio a me succede questo e che senso può avere?".

Gli altri possono starci accanto, offrire il loro aiuto, questo ci conforta, non ci fa sentire soli, ma siamo noi al centro della tempesta, nessun altro può mettersi nei nostri panni.

Quando la tempesta finisce, se finisce, è naturale guardare indietro, ce lo confermano i versi di Dante nel primo canto dell'Inferno: " Come quei che con lena affannata / uscito fuor del pelago alla riva / si volge all'acqua perigliosa e guata / così l'animo mio...".

Rimanere a lungo in quella posizione potrebbe tuttavia ancorarci al passato e farci cadere nell'immobilismo; rischieremmo di diventare statue di sale, mentre dovremmo assaporare e abbandonarci alla quiete del presente, quella famosa quiete dell'anima, a cui allude il Leopardi nei suoi versi. Godiamo allora l'esaltante emozione di essere scampati al pericolo, di essere vivi.

Vivere significa scoprire l'importanza dei nostri affetti, delle nostre relazioni, godere della bellezza della natura; sono le piccole cose che ci rendono felici: un fiore che sboccia, un ramo che fiorisce, un lembo di cielo azzurro, un gesto gentile, una carezza, un sorriso.

L'altra direzione è pensare che ci è toccata la più grande disgrazia del mondo, chiuderci in noi stessi e avvitarci nella spirale del malessere, della negatività, dell'eterno rimpianto per ciò che abbiamo perduto, la ovvia conseguenza sarà cadere nella depressione. La quiete arriva invece quando guardiamo in alto verso il cielo e contempliamo il suo azzurro infinito, è quando scopriamo che siamo ancora vivi ed è questo che conta veramente, non ciò che abbiamo perduto. Possiamo ancora amare, cogliere la bellezza del creato e di quanti lo abitano. Ci siamo svegliati da un incubo e sul nostro cammino ci sono ancora, se non mille, molte possibilità .

A questo punto ci rendiamo conto che fra le contraddizioni dell'uomo, questa è forse la più importante. Abbiamo bisogno del buio per vedere la luce, della povertà per apprezzare il benessere, della caduta per poterci rialzare, infine del dolore per scoprire la gioia.

Ora il lettore potrebbe pensare che il mio è un esercizio di retorica e proprio perché non conosco la vera sofferenza, posso esaltare gli effetti benefici della tempesta, del dolore.

Rispetto questa opinione, ma ritengo che tutti abbiamo fatto esperienza del dolore, me compresa; lo provano le cicatrici che mi porto dentro. So quanto è difficile "Tornare a riveder le stelle" o soltanto la luce del giorno; so che non è un percorso lineare, che potremo dimenticare i benefici e ricadere.

Le critiche non mancheranno, ma senza alcuna presunzione non rinuncio ad indicarvi questa strada, perché è un'esperienza autentica, non solo personale ma comune a molti altri uomini e la ritengo il modo giusto per ritornare ad apprezzare la vita