Patrizia Invernizzi Di Giorgio: Chi siamo?

15.11.2020

...........................................................................................................................................................................................

Chi siamo ?

L'unica identità certa è il certificato di nascita, dove è scritto il nostro nome, cognome, data e ora della nascita, quali sono i genitori.

Poi gli anni trascorrono e gli eventi man mano costruiscono la nostra personalità e, insieme alle caratteristiche fisiche, la nostra identità. Non mi azzardo mai a dire: "Sono così", bensì: "Oggi sono così", domani potrei essere diversa.

Tempo di pandemia: il coronavirus, che ha un'estrema facilità a contagiarci, si è diffuso ovunque, ha messo in ginocchio l'economia, cambiato gli stili di vita; è qualcosa che ci riguarda da vicino e al tempo stesso ci sovrasta.

Durante i mesi del lockdown totale abbiamo avuto parecchio tempo per pensare e porci interrogativi esistenziali, tra i quali forse quello che ci riguarda maggiormente, è l'identità: "Chi siamo veramente? Come ci sentiamo e ci comportiamo di fronte a questa nuova pestilenza?".

Per esempio io credevo di essere abbastanza coraggiosa: ho sempre difeso i deboli, che subivano sopraffazioni, ingiustizie, oggi non esito a fronteggiare i bulli, se mi capita di assistere ad un episodio di bullismo; in passato sono riuscita persino a far cacciare gli spacciatori dalla piazza principale del quartiere, anche se ero consapevole del pericolo che correvo.

Non è certo un merito, è una cosa che mi accade, forse per il mio carattere, forse per le esperienze che ho avuto, ma della morte non ho una paura particolare. La immagino come è rappresentata nell'affresco lungo 22 metri "Danza macabra", che si trova a Berlino nella Marienkirche. La morte si presenta come uno scheletro, anzi tanti scheletri, coperti da un lenzuolo, che hanno un aspetto assai poco terrificante. Anzi gli scheletri prendono per mano gli artigiani, i commercianti, i notabili e i poveri della città e danzano con loro. E' proprio come dice la poesia di Totò: "A livella", la morte è portatrice di giustizia: non fa alcuna differenza tra gli uomini, prima o poi se li porta via tutti. Dunque una morte che balla, per di più amante della giustizia, non può spaventare troppo.

Qui e in molte altre raffigurazioni la morte ha in mano la falce e io l'ho sempre associata alla mietitura: il grano seminato cresce e quand'è maturo viene falciato, tutto questo è naturale, asseconda i ritmi della natura. Penso in definitiva che la morte, se arriva alla fine di un lungo percorso di vita, non se è il brusco epilogo di un trauma o di una malattia inguaribile, vada accettata come un fatto naturale, altrettanto quanto lo è la nascita.

Le immagini che dalla fine di febbraio ci tempestano in TV o sui social sono tutt'altra cosa. Le lunghe code delle ambulanze davanti al pronto soccorso, le barelle che trasportano gli ammalati, ma soprattutto l'inferno delle terapie intensive.

Qui i medici e gli infermieri corrono da un letto all'altro, chiusi nei loro scafandri, come gli astronauti di una "mission impossible", i volti dei vecchi, e ora anche dei meno vecchi, compaiono sotto macchinari sofisticati, tesi nello spasmodico desiderio di respirare; mi colpiscono le inquadrature dei piedi, che sporgono dalle lenzuola d'ospedale, come fossero sudari, ancor più bianchi delle lenzuola stesse, annuncio di una morte imminente. Mi tornano in mente le rappresentazioni del Cristo morto, prima fra tutte quella del Mantegna.

Sì, ho paura, temo questa terribile morte per asfissia e soprattutto temo la sua segregazione, lontana per sempre dai familiari, dalle persone amate. Allora capisco che la morte non sempre balla, può avere volti terribilmente disumani.

Non è che non conoscessi le forme in cui la morte giunge dopo tanto dolore, ma un moribondo raramente viene abbandonato, lo puoi andare a trovare e quasi sempre i familiari gli sono intorno a consolarlo con il loro affetto.

Qui la segregazione non è una scelta, come i vecchi delle tribù indiane, che andavano a morire da soli, lontano dal villaggio, qui ad imporla è la paura di contagiare; qui si muore da soli, perché gli altri possano vivere.

Ebbene a queste morti non riesco ad abituarmi. Ormai, quando sullo schermo passano immagini di questo genere, spengo in automatico. Spengo perché la mia notte non si riempia di incubi, spengo per essere in grado il giorno dopo di affrontare la vita.

Ho capito che se mi troverò in situazioni come questa, non riuscirò a tirar fuori il mio coraggio. Non sono dunque tanto coraggiosa o meglio lo sono, a patto di avere qualcuno vicino, che mi sostenga.

Mi sembra talvolta di affogare in un pozzo nero e profondo. Provo una costane inquietudine, come se una nube di cenere coprisse tutta la terra. Questa volta non si tratta di avere di fronte un nemico, dai tratti conosciuti, sappiamo molto poco del coronavirus e nemmeno la notizia di un vaccino mi rasserena, servirà a sconfiggere definitivamente questo virus, ci sarà per tutti? E gli effetti collaterali?

Non temo tanto il mio futuro, ho già vissuto molto; temo per i miei figli, per i miei nipoti, per tutti gli uomini di questo millennio. Quando è cominciata la battaglia di Greta Thunberg per salvare la terra, mi è apparso davanti agli occhi uno scenario apocalittico, che conoscevo, ma che avevo rimosso: la desertificazione, le inondazioni, cicloni, tsunami sempre più frequenti e poi la fame, la sete, la guerra.....

La vita su questa terra potrebbe diventare una lotta per sopravvivere. Non basta, ora è arrivata anche la pandemia, un nuovo fenomeno, con disastrose conseguenze anche sul piano dell'occupazione.

Non sono molto paziente, vorrei risolvere qualsiasi problema subito. Questa volta è impossibile. Credo che quest'epidemia prima o poi dovrà finire, ma quando? Anche gli esperti, i virologi non lo sanno con certezza. E poi, quanti morti si dovranno contare e quelli che rimarranno saranno come prima, sapranno elaborare tutti questi lutti?

Dicono che le epidemie stimolano i creativi, che ad esempio Shakaspeare ha scritto le opere migliori durante la peste del seicento, che flagellò Londra. Penso di essere abbastanza creativa, specie nell'ambito della scrittura, ma questa è la prima volta che prendo la penna in mano, da quando la seconda ondata del coronavirus ci ha sommerso.

So che devo bucare questa coltre grigia, tornare a vedere il cielo, so che devo risollevarmi, ricomporre con maggior consapevolezza la mia identità che si è frantumata, tornare a combattere per un mondo migliore.

Ciascuno di noi riconosce quali sono i suoi punti di forza. Io devo aggrapparmi alla mia capacità di risalire, alla mia resilienza. Sento che è ancora intatta, penso lo sia perché l'ho esercitata molto. Ho subito tanti eventi dolorosi e sono sempre tornata a galla, lo farò anche questa volta, ma, per favore...... datemi del tempo!