In quel tempo

04.05.2020
Oppido Lucano (Pz), Panorama
Oppido Lucano (Pz), Panorama

In quel tempo
(Noi quattro)

 Abitavamo in Lucania, era così denominata, allora, la Basilicata. Oppido Lucano veniva descritto come un paese "dimenticato da Dio e dagli uomini". Un'economia povera, esclusivamente contadina, la cui terra non produceva granché. Ma, anche noi eravamo poveri. Le foto di allora dimostrano lo stato della nostra povertà. Eravamo vestiti di stracci. Non lo sapevamo. Eravamo poveri, ma eravamo felici. Al tempo della mia fanciullezza i bambini non dovevano sapere "certe cose", se ne sarebbe parlato quando fossero stati più grandi. Per inciso, mio padre, si decise ad affrontare uno di quegli argomenti "scabrosi" mentre lo stavo salutando sulla soglia di casa in partenza per il servizio di leva: non andare con quelle donne - mi disse - potresti prenderti qualche malattia! Così venivo accuratamente "protetto", cioè tenuto in disparte da qualsiasi discorso riguardante la materia.

Quando nessuno ci dice niente, quando gli adulti non spiegano ai loro figli i misteri (che misteri non sono) della vita, forse ci pensa la natura, o forse è l'istinto che guida la ragione conducendola alla conclusione. Forse per questo, alla soglia della pubertà, nonostante nessuno me ne avesse parlato, avevo già capito "come nascono i bambini". Mi rimaneva solo da sciogliere un enigma del quale non riuscivo a venire a capo. Avevo capito che il bambino nasce dalla mamma, cioè esce dalla mamma. Avevo anche intuito che il bambino, trovandosi nella sua pancia, per uscire dalla mamma, non poteva che uscire da qualche "orifizio". Bene, ma da quale dei due? Inoltre, com'era possibile che un bambino con la testa, con il corpo e con le mani potesse attraversare un passaggio così stretto? Questi interrogativi finirono per accompagnarmi per molto tempo ancora.

In quel tempo e in quei paesi, le donne partorivano in casa e venivano assistite dalla levatrice. Un certo giorno, una signora prese a frequentare la nostra casa. Ogni tanto veniva e si appartava con mia madre, la quale mi invitava ad andare altrove, ad andare a sorvegliare le mie due sorelle più piccole, ad andare a giocare con loro. Ciò nonostante le mie orecchie erano come l'orecchio di Dionisio, riuscivano miracolosamente a captare le informazioni più importanti. Quello che riuscii a capire fu che la signora veniva ad assistere mia madre per disturbi della menopausa. Sapevo di raffreddori, di febbre, di influenze, ma di menopausa non avevo mai sentito parlare. La cosa mi incuriosiva e, al tempo stesso, un po' mi preoccupava. Dopo alcuni mesi di cure, immagino, ormonali, non so se per un soprassalto di intelligenza della levatrice o per un provvidenziale intervento del medico condotto, si accorsero che mia madre era incinta già a uno stadio avanzato della gestazione. Seppi più tardi che essendo incinta, ma venendo curata per la menopausa stava rischiando la vita. Giunse così il gran giorno.

Avevo dieci anni compiuti. Anna nove e Mimì sei. Una fresca mattina estiva quella del 22 luglio 1952. Papà ci svegliò prima del solito. Ci fece alzare, vestire e fare colazione. In casa c'era già un po' di trambusto. Io già sapevo quello che di lì a poco sarebbe avvenuto, ma per l'epoca e per la educazione ricevuta mi sentivo obbligato a recitare ancora la parte dell'ingenuo bambino che crede alla "befana". Essendo "il più grande", da sempre, mi venivano assegnati compiti di responsabilità. E anche quella mattina dovetti fare da "tutore" nei confronti di Anna e Mimì che, diversamente da me, alla "befana" ancora credevano davvero. Perciò, papà mi prese in disparte e, come era solito fare in analoghe occasioni, mi disse: "Nino, sta per arrivare un fratellino nuovo...accompagna Anna e Mimì su in terrazza ad aspettare l'arrivo della cicogna. Aspettate lì fino a quando vi chiamerò."

Dissi di sì, cercando di nascondere il mio imbarazzo. Forse papà ne era consapevole, ma anche a lui toccava di recitare la parte del genitore imposta dal codice educativo di quel tempo. Parte che, per l'educazione ricevuta, papà riuscì a sostenere, nei miei confronti, come ho già detto, fino al giorno in cui partii per il servizio di leva.

Salimmo in terrazza e cominciammo a scrutare il cielo azzurro: io continuando a recitare, Anna e Mimì impegnandosi seriamente in attesa dell'avvistamento della cicogna! Quando, a un tratto, Anna, con il più grande e sincero candore che si possa immaginare, esclama gridando: "l'ho vista...l'ho vista...ho visto la cicogna...!". E, io, continuando nella mia recita di "tutore dell'infanzia innocente": "Ah! Si... è vero... è vero!" La voce di papà che ci chiamava giunse a quel punto provvidenziale, se non altro perché mi sollevava dall'increscioso compito di proseguire nella commedia.

Scendemmo, Anna e Mimì, accompagnate da un papà visibilmente sollevato e felice, corsero ad ammirare Gerardo che, nel frattempo, era stato depositato dalla "cicogna" nel lettone, accanto alla nostra mamma. Io corsi a nascondermi in quella che chiamavamo "stanza scura" (perché adibita a ripostiglio). Era grande il mio imbarazzo. In cuor mio sapevo tutto (o quasi), ma per quel codice di cui parlavo prima, non era concepibile che alla mia età si sapesse già di come "nascono i bambini". La mia coscienza si faceva sentire. Saperlo era come aver commesso qualcosa di grave. Era come aver trasgredito una regola. Mi vergognavo di presentarmi al cospetto di mia madre.

Naturalmente papà insistette perché anch'io andassi a salutare il nuovo venuto e alla fine dovetti cedere e, tutto rosso e con il cuore in gola dall'emozione, mi avvicinai al letto di mamma rimanendo impalato a guardare le prime smorfiette di Gerardo. Infine, mi decisi a fargli una carezza. La manina di Gerardo afferrò il mio dito stringendolo forte.

Io, Mimì, Anna e Gerardo qualche anno dopo
Io, Mimì, Anna e Gerardo qualche anno dopo