Antonio Fiorito: La mia paura

01.10.2020
Caposele (Av), Panorama
Caposele (Av), Panorama

La mia paura

Sarei tentato di affermare di non sapere cosa sia la paura. Forse perché dal concepimento alla gestazione e da questa alla nascita e un po' oltre, la mia vita è stata accompagnata dal suono delle sirene che annunciavano le incursioni degli aerei che sganciavano tonnellate di bombe su Napoli. Un "battesimo di fuoco", dunque. Ma proverò a guardare in me stesso per vedere se davvero l'imprinting ricevuto mentre venivo al mondo mi abbia reso, per così dire, refrattario a questo stato emotivo.

Ho vissuto la prima infanzia in un paese dell'Irpinia. Erano gli anni dell'immediato dopoguerra. Un paese ad economia contadina. Una comunità povera, ma culturalmente ricca sul piano delle tradizioni familiari e popolari. Non avevamo giocattoli. Giocavamo con quello che la nostra fantasia ci suggeriva. Vivevamo la natura selvaggia della campagna, un'avventura nuova ogni volta. Ci arrampicavamo sugli alberi, saltavamo tra un edificio e l'altro del cantiere dell'acquedotto. Scoprivamo "tesori nascosti": vecchi chiodi o arnesi arrugginiti tra le mura di una casupola semidiroccata, ma anche una serpe arrotolata addormentata sotto una pietra che incoscientemente avevamo sollevato. Ci divertivamo rincorrendoci per le strade del paese, entravamo nelle case dell'uno o dell'altro dove, a volte, c'era qualche defunto composto sul letto di morte, in attesa del funerale. All'indomani del funerale, i morti venivano festeggiati. I familiari che ieri avevano pianto il congiunto, ora si riunivano e ballavano in suo onore accompagnati dal suono dell'organetto e del clarinetto. Le case erano "aperte", nessuno si preoccupava di "averci tra i piedi" e noi c'eravamo sempre: ai matrimoni, alle nascite, ai funerali, alle feste in onore dei morti. Tutto per noi era un gioco. Anche l'andare con i genitori al Camposanto diventava occasione di gioco. Correvamo tra i tumuli di terra, nel profumo dei cipressi e delle siepi di mortella, noncuranti delle ossa dei defunti riesumati, allineati per terra, messi al sole ad asciugare in attesa dell'ultima, definitiva "sistemazione". Per noi il pericolo era una categoria sconosciuta. Vivevamo tutto con assoluta naturalezza.

Le responsabilità che inevitabilmente si devono assumere nell'età adulta comportano imprevisti, rischi, pericoli. Non ho avuto paura nel montare di guardia nella notte più buia e più fredda dell'anno, nella postazione più isolata e remota di un aeroporto. Non ho avuto paura quando l'impegno politico e sindacale mi ha portato a governare le tensioni dei manifestanti o quando nelle lotte sindacali mi son trovato a fare i conti con l'opalescenza della mafia in Calabria e in Sicilia. Quando ricevetti lettere anonime e minacce velate perchè, nella mia responsabilità di dirigente di un Ente, fui costretto, mio malgrado, al licenziamento di molti dipendenti, temetti per la mia famiglia, ma non posso dire di aver avuto paura.

Quando, prima mio padre e poi mia madre ci lasciarono, in tutte e due le occasioni, io rimasi impietrito, sulla porta della camera ardente dell'obitorio, a guardare mia sorella fare loro una carezza e dare loro un bacio sulla fronte con un sorriso: Ciao, papà!... Ciao, mamma!... Con uno sforzo enorme feci appello a tutta la mia capacità di reazione per evitare di perdere i sensi. Al momento della chiusura della bara, camminando come un automa, mi allontanai per non vedere, per non sentire il rumore del cacciavite elettrico che stringeva le viti del coperchio. Ecco, forse è questa la "mia" paura. Non la paura di morire, no! Ma la paura della morte. La paura del freddo di un cadavere. La paura di una vita che non è più. La paura di spoglie inanimate con cui non è più possibile comunicare. La paura di venirsi a trovare di fronte al Niente. Forse.